Perle sostenibili
Ah, chissà lo stupore e la reverenza dell'uomo preistorico al cospetto di quella lucente eppur piccola materia bianca nascosta in un'ostrica!
I primi popoli della Mesopotamia e dell'Egitto sapevano di quella magia che avveniva nelle calde acque del Golfo Persico e del Mar Rosso, ma furono i Persiani ad esserne rapiti. Poi i Fenici crearono una via dall'India al Mediterraneo e divennero i primi mercanti di perle.
I Greci provarono tanto stupore al cospetto di quell'arcano che si mostrava tra le mani del mercante fenicio, da far nascere Afrodite, la loro dea dell'amore, da una conchiglia che si erge tra flutti d'acqua, proprio come una perla - margariths.
Donne e uomini cominciarono ad adornarsi di perle secondo l'usanza persiana e, più tardi, quando Pompeo conquistò l'Oriente, mai così tante perle furono accumulate in un'unica città: Roma.
Al sopraggiungere del Medioevo la sopravvivenza delle ostriche perlifere era a rischio. Poi si scoprirono le bellezze nascoste nel Pacifico e perle e perle e perle tornarono a fluire in Europa. Questa intensa caccia ne portò quasi all'estinzione.
Fu il successo nella riproduzione dei processi di formazione e di sviluppo delle perle a consentire alle ostriche di sopravvivere. Le prima coltivazione avvenne in Giappone intorno al 1905 (perle Ayoka), poi in Australia nel 1954 (perle South Sea) e infine, nel 1963, nella Polinesia Francese (perle di Tahiti).
Sostenibilità
Gli allevamenti di perle non sono naturalmente compatibili con gli ecosistemi marini e lagunari, ed è solo quando vengono impiegate specifiche tecniche che il processo diventa sostenibile, generando un impatto estremamente positivo sulla natura e sulle comunità locali, che dipendono l'una dall'altra.
Le ostriche sono molto delicate, risentono del cambiamento climatico e della variazione di qualsiasi fattore esterno: malgrado la cura, i controlli e gli sforzi degli allevatori, ogni gemma è una sorpresa, opera a pari merito di uomo e natura, di scienza e di physis.
Anche se per essere naturalmente belle le perle devono crescere in un ambiente sano, gli allevatori che, per preservare lo stato degli ecosistemi, operano scelte a lungo termine sono ancora una minoranza, poiché con molto meno impegno è possibile ricorrere a trattamenti artificiali per alterare l’aspetto delle perle.
Negli allevamenti buoni la priorità è quella di preservare - spesso anche di ristabilire - la biodiversità, incentivando e proteggendo la salute delle barriere coralline, perché non si perde mai di vista il fatto che le perle possono appartenere a un circolo virtuoso: sono le uniche gemme in grado di dare qualcosa indietro alla natura in virtù della loro stessa esistenza.
La sostenibilità si dispiega in diverse aree:
- non prelevare ostriche selvatiche, evitare il sovraffollamento nelle lagune non provocare l'inquinamento da alghe;
- supportare le comunità locali e guidarle ed educarle al rispetto dell'ambiente;
- l'allevamento deve diventare una famiglia nella quale tutti partecipano e sono trattati egualmente, perché si è in zone così remote che nessuno riesce a tornare a casa di frequente;
- le perle non devono subire alcun trattamento che ne alteri l’aspetto.
Marc'Harit
Ogni anno mi reco a Copenaghen per scegliere le perle dagli ultimi raccolti, che arrivano da una manciata di allevamenti collocati in aree remote delle Filippine, delle Fiji, della Polinesia, del Messico e dell'Australia, grazie al lavoro di ricerca, controllo e supporto di Kira Høg Kampmann. Marc'Harit nasce al suo ritorno in Danimarca dopo anni passati a studiare su un atollo della Polinesia francese, con lo scopo di portare in Europa perle coltivate rispettando le persone e l'ambiente.
Quando si cerca un materiale prezioso che sia buono oltre che bello, saper classificare e valutare non basta: occorre conoscere e comprendere l'intera filiera dal vero, al fine di saper applicare principi di carattere generale a casi specifici, saper distinguere e, dunque, promuovere le giuste pratiche. Kira non è solo un'esperta di perle, ma un'appassionata divulgatrice, una naturale ricercatrice e un'insaziabile viaggiatrice.
La visita dell'allevamento nelle Filippine
Ad aprile 2018 ho avuto la possibilità di accompagnare Kira in uno dei suoi periodici viaggi di controllo, così ho potuto visitare l’allevamento delle Filippine, quello nel quale nascono le perle South Sea dorate. Da Manila abbiamo preso un altro aereo, poi una macchina e poi ancora una barca. Ero nel posto più remoto che potessi immaginare e le prime parole che lessi furono quelle stampate sulla maglietta di un lavoratore: "behind each pearl is a family".
Il processo di coltura è lunghissimo: dietro a una perla non c’è solo una famiglia, ma almeno 5 anni e 377 procedimenti. Il cuore dell'allevamento è costituito da un avanzato laboratorio di biologia, dove le ostriche vengono fatte nascere, in quanto prelevarne di selvatiche in natura è rischioso e insostenibile, ma vengono anche nutrite e accudite "like babies" dai biologi, finché non sono grandi abbastanza da essere portate nell'oceano.
Piccole barche, allora, vanno e vengono per trasportare le ostriche dal laboratorio alla loro nuova casa, ma anche per spostarle in base alle correnti, alle temperature e alla presenza di plancton. Ogni due settimane, inoltre, ogni ostrica viene portata in superficie per qualche minuto al fine di essere attentamente pulita, esternamente, da alghe e parassiti che potrebbero farla ammalare. Questo materiale, benché organico, non può essere rigettato in mare, così viene raccolto e portato a terra, dove diventa fertilizzante.
Monitoraggio e ricerca sono incessanti, perché qui il cambiamento climatico si vede tutto. Ad esempio, poco tempo prima del nostro arrivo, il laboratorio era riuscito a impiantare nella barriera corallina dei coralli che aveva cresciuto assieme alle ostriche.
Di fianco al laboratorio di biologia c’è l’alloggio di tutti i lavoratori. Le ostriche non possono mai essere lasciate sole e l’allevamento è in una zona remota, quindi nessuno riesce a tornare a casa più di due volte l’anno. Ognuno partecipa all’impresa in egual misura.
Quando l’allevamento è stato fondato nel 1999, i segni del cambiamento climatico erano forse meno evidenti, ma nell’area venivano utilizzati dinamite per pescare, incendi per ricavare terreni coltivabili e altre pratiche ugualmente pericolose e guidate da necessità e ignoranza. Con lo spirito di fornire agli altri abitanti dell’area gli giusti strumenti per il futuro, nel 2006 l’allevamento ha creato la fondazione non-profit Save Palwan Sea Foundation, che coinvolge 10 isole e i loro 5000 abitanti. I progetti portati avanti sono tanti e lo scopo è quello di creare delle fonti di sostentamento economicamente remunerative, ma anche ambientalmente sostenibili, perché solo così il cerchio della vita potrà continuare.
Ci sono voluti quasi vent’anni per ripristinare l’ambiente marino!
Assieme a Kira ho visitato anche una di queste isole. Fino a quel momento non avevo visto che le sole barche dell’allevamento spostarsi, ma più andavamo avanti più incontravamo imbarcazioni di ogni tipo che sembravano andare nella nostra stessa direzione. Alcune sembravano galleggiare in barba a ogni legge della fisica, altre erano opera di grandi creatività e necessità. Giunte a destinazione ci è voluto del tempo per riuscire ad attraccare, tanto era l’affollamento. Ebbene, la fondazione riesce a far arrivare un’equipe medica due volte l’anno e quello era uno di quei giorni preziosi: tutti accorgevano per farsi visitare.
A questo link potrai guardare il mio diario video di quei giorni, conoscendo meglio questo mondo lontano che vive di cura e il cui racconto è inesauribile.